domenica 27 dicembre 2009

Il meglio del 2009 (prima parte) – I 10 migliori album rock dell'anno

Il 2009 non è stato un anno rivoluzionario per la musica pop e rock. Anche le migliori proposte del rock alternativo (Animal Collective, Dirty Projectors, Grizzly Bear) sono state in fondo conferme di artisti che già da tempo avevano attirato su di loro le attenzioni di pubblico e critica. Poche sorprese, insomma, ma ci si può consolare con qualche gradita conferma. Alcune le trovate in questa lista, e il fatto che tanti album di qualità siano rimasti fuori (i nuovi di Flaming Lips, Phoenix, Yeah Yeah Yeahs, Neko Case, Decemberists, Bat For Lashes, Dinosaur Jr...) è la più grande dimostrazione che, per chi sa cercare, c'è sempre musica nuova con la quale riempire le proprie giornate. E che si può cominciare ad andare in cerca del miglior disco del 2010!


10 Gov't Mule – By A Thread

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Con By A Thread, i Gov't Mule, guidati da Warren Haynes con la sua Gibson Les Paul Standard (http://www.gibson.com/warrenhaynes/), riescono a trasportare in uno studio di registrazione lo stesso feeling tipico dei loro live. Nelle undici canzoni di questo nuovo lavoro, spaziano agevolmente dal blues incandescente di Inside Outside Woman Blues # 3 a una ballata dal cuore spezzato come Forevermore. Il meglio lo offrono con la furente apertura Broke Down On The Brazos (con in evidenza il basso di Jorgen Carlsson e un'altra Les Paul eccellente, quella dell'ospite Billy Gibbons degli ZZ Top) e con la spettacolare rilettura del brano tradizionale Railroad Boy.


Video – Railroad Boy


9 Bob Dylan – Together Through Life

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Stacanovista come al solito (continua imperterrito il suo Never Ending Tour), Bob Dylan nel 2009 offre ai suoi fan un disco per l'estate e un album natalizio. Per Together Through Life scrive dieci nuove canzoni, con l'ausilio di Robert Hunter e della tradizione (si ama e si ruba, è la prassi). Malgrado i temi cupi, confeziona un disco solare, al quale la fisarmonica del Los Lobos David Hidalgo conferisce ulteriore leggerezza. Canzoni come Forgetful Heart e I Feel A Change Coming On confermano che il più grande di tutti è sempre capace di emozionare, e che per il futuro forse ci si può ancora aspettare da lui un album all'altezza di “Love And Theft.” Con Christmas In The Heart fa beneficenza e prosegue la sua infinita riscoperta delle Americhe, dimostrandosi a suo agio con la polka (!) e col repertorio di Nat King Cole, Bing Crosby e Dean Martin, e prevedibilmente fuori luogo alle prese con Adeste Fidelis.


Clicca qui (http://www.gibson.com/it-it/Stile-di-Vita/Notizie-Rilevanti/this-dream-o-you-bob-dylan-501/) per leggere la recensione di Together Through Life, e qui (http://www.gibson.com/it-it/Stile-di-Vita/Notizie-Rilevanti/Vade-retro-Santa-101/) per leggere quella di Christmas In The Heart.

Video – Forgetful Heart



8 Super Furry Animals – Dark Days/Light Years

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Per il più affidabile gruppo gallese, parole come pop e rock non rimandano a un insieme definito di regole, ma a un universo indefinito di possibilità. In genere si costringono da soli a restringere il campo, con regole momentanee del tipo “facciamo un disco prog,” “omaggiamo la West Coast,” o “non usiamo il sassofono.” Segno che son capaci di tutto. Per Dark Days/Light Years si impongono semplicemente di rinunciare alla slide, e di girare alla larga dal country rock. Per il resto, propongono il solito ricco menù, tra glam, anni '60, lunghe jam e brillanti gemme pop. Lanciando il tutto con un brano, Inaugural Tram, nel quale omaggiano il kraut rock e ospitano Nick McCarhty dei Franz Ferdinand. Perché gli serviva qualcuno che rappasse in tedesco.


Cliccate qui (http://www.gibson.com/it-it/Stile-di-Vita/Novita/a-cardiff-che-tempo-fa-417/) per leggere la recensione di Dark Days/Light Years.


Video – The Very Best Of Neil Diamond


7 Arctic Monkeys – Humbug

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Per poter crescere, Alex Turner e compagni hanno deciso di fare di Humbug un disco nel quale fosse difficile riconoscerli, un lavoro nel quale provare nuove soluzioni, a costo di lasciare spaesato il popolo con le All Star e deludere chi si era innamorato del loro vecchio sound. Josh Homme dei Queens Of The Stone Age, produttore di metà del disco, è stato entusiasta di assecondare la voglia degli Arctic Monkeys di suonare “strani.” La ricerca si traduce in un'inedita cupezza, che per larghi tratti frena anche il rinomato wit dei testi di Turner. Ma che consolazione trovare un gruppo che non accetta di diventare noioso e prevedibile, e che gioia scoprire che in questo lavoro ostico ci sono alcuni dei brani migliori della band, come Cornerstone e Secret Door.


Video Arctic Monkeys - Crying Lightning


[Clicca qui per continuare a leggere la classifica dei dischi dell'anno su Gibson.com]

domenica 20 dicembre 2009

Kris Kristofferson, la Gibson SJ e le canzoni nude di Closer To The Bone

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A volte bisogna sapersi fidare. E per quanto sia difficile trovare qualcuno più diffidente di un vecchio saggio, alcuni nomi storici del country e del rock stanno dimostrando come possa essere una scelta vincente quella di mettersi nelle mani di produttori più giovani, per presentare al meglio la propria musica e le proprie emozioni.Loretta Lynn a settant'anni ha accettato la corte di un fan eccellente come Jack White, lasciando che il chitarrista dei White Stripes regalasse il suo suono ruvido a Van Lear Rose (2004), arrivando in tal modo anche al pubblico del rock alternativo. Rick Rubin, in precedenza celebre per il suo lavoro nel mondo del rap (Beastie Boys, Run D.M.C.) e del rock (Red Hot Chili Peppers, The Cult), ha consentito a Johnny Cash di rendere indimenticabili anche le ultime pagine della propria straordinaria storia, con la delicatezza e l'inaudita potenza delle American Recordings. E per quanto Bob Dylan possa oggi dichiararsi insoddisfatto, l'impressione è che forse senza il doppio intervento di Daniel Lanois (Oh Mercy, 1989, e Time Out Of Mind, 1997) gli sarebbe stato molto più difficile uscire artisticamente vivo dal pantano degli anni '80.
Kris Kristofferson ha trovato il suo perfetto compagno di viaggio in Don Was. Non inganni il fatto che il produttore di Detroit sia celebre soprattutto per il funk cerebrale dei Was (Not Was), o per il lavoro con Iggy Pop e B-52's. Nel curriculum di Was c'è anche molto country, a partire da una collaborazione con George Jones risalente alla fine degli anni '70. Anche la sua amicizia con Kristofferson è di vecchia data. Was è stato al suo fianco in A Moment Of Forever, uscito nel '95 dopo travagliate vicende discografiche, e in The Road Goes On Forever (1995), ultimo disco del supergruppo country The Highwaymen (composto, oltre che da Kristofferson, da Johnny Cash, Waylon Jennings e Willie Nelson).

[Clicca qui per continuare a leggere la recensione di Closer To The Bone scritta da Paolo Bassotti per Gibson.com]

Video - Kris Kristofferson - Closer To The Bone

martedì 8 dicembre 2009

Have You Heard The News?– Intervista ai Waines















I Waines sono uno dei giovani gruppi italiani da tenere sotto controllo. Non solo perché il loro rock è tanto irruento da potervi demolire casa. Ma anche perché gli eventi recenti potrebbero portare il trio palermitano a conquistare il grande pubblico: da poco è uscito il loro primo ottimo album, Stu, capace di confermare quanto di buono si era sentito nell'EP
del 2007 A Controversial Earl Playing; inoltre, il malizioso video del brano trainante, Let Me Be, diretto da Corrado Fortuna, ha vinto nella categoria “miglior regia” al PIVI, Premio italiano per il videoclip indipendente. A contribuire alla loro crescita ha contribuito però soprattutto il passaparola di chi li ha visti suonare dal vivo. Abbiamo parlato di tutto questo con loro tre: i chitarristi (gibsoniani!) Fabio Rizzo e Roberto Cammarata, e il batterista Ferdinando Piccoli.


Paolo Bassotti: Come vi siete conosciuti e come avete iniziato a fare musica assieme?


Waines: Ci siamo conosciuti al liceo e abbiamo cominciato a jammare come i matti durante le occupazioni: come si deduce, non è vero che non servono a nulla!


Come mai il vostro precedente gruppo, i Pastense, si è trasformato nei Waines? Quali sono le differenze tra i due gruppi? Come mai avete deciso di non avere un bassista?


Tra i Pastense e i Waines sono passati quattro anni, durante i quali ci siamo persi di vista. Fabio (slide e voce) è andato a vivere a Bologna, per poi tornare nel 2005 con l'idea del trio senza basso e le bozze per i primissimi esperimenti dei Waines.


Come nascono i vostri pezzi? Da jam improvvisate, oppure uno di voi scrive da solo e porta poi la canzone agli altri per lavorarci insieme?


E' successo più spesso che ci fossero canovacci portati da qualcuno e poi sviluppati insieme. Server invece è nata durante del cazzeggio al vecchio box che avevamo, che poi si è allagato con tutto quello che c'era dentro.


Ascoltando il vostro sound, viene spontaneo pensare all'influenza dei classici del rock'n'roll e del blues, così come dei gruppi che l'hanno provato a reinventare, quali Jon Spencer Blues Explosion o Black Crowes. Le vostre cover (Soulwax, Depeche Mode, Prodigy) suggeriscono invece che i vostri ascolti sono più vari del previsto. C'è qualche altra vostra passione musicale insospettabile? O qualche artista che uno di voi ama, ma che non riesce proprio a far digerire agli altri due?


[Clicca qui per continuare a leggere l'intervista di Paolo Bassotti ai Waines su Gibson.com]

[Clicca qui per leggere la recensione di Stu, il primo album dei Waines, su Gibson.com]

La foto è stata scattata da Michela Forte e concessa dal menagement dei Waines

Video - Waines - Wooooo

domenica 6 dicembre 2009

E all'improvviso ci fu un rumore – Stu, l'album di debutto dei Waines

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La macchina di carne sbuffa e pulsa. Vedere i
Waines in concerto spinge – costringe – a considerare ancora una volta un aspetto chiave della natura sempre ambigua del rock. Il trio di Palermo fila come un treno. Una batteria (Ferdinando Piccoli), due chitarre, chitarre Gibson, ovviamente, (Fabio Rizzo e Roberto Cammarata), per una nuova incarnazione, aperta a influenze e deviazioni, del rock anni '70. Incessante, implacabile. Mantengono ritmo e intensità crudeli, come in una rappresentazione espressionista della Fabbrica. Ma il macchinario è vivo, i tre Stachanov sudano, si consumano. Sembra quasi che vadano avanti a creare musica nuova per continuare a combatterla, a distruggersi, come pugili sorprendentemente sempre più carichi col passare dei round. Musicisti che s'immolano all'estasi della musica. Rock and roll, per intenderci. Questo è tutto quello contro il quale ha combattuto certa elettronica (pensiamo alla negazione dell'idea di live ipotizzata dagli Human League, ad esempio), ed è una bella e paradossale sorpresa scoprire che i Waines vanno a pescare proprio dalle parti dei figli dei synth per una cover che si inserisce alla perfezione accanto ai propri brani originali. La loro versione di NY Excuse dei belgi Soulwax, assieme all'Around The World dei Daft Punk ripresa dai Tre Allegri Ragazzi Morti e all'ottima Hey Boy, Hey Girl dei Chemical Brothers rifatta dalla Bud Spencer Blues Explosion, va a comporre una sorta di curiosa trilogia, che possiamo chiamare “della dance riletta dall'indie italiano,” nel caso ci fossero in giro appassionati di etichette. Questo è un tris che testimonia la voglia di certi musicisti rock sia di non chiudersi, sia di continuare a riportare tutto a casa – o, meglio ancora, nel proprio garage – per rivendicare, dopo tutto, ancora il primato della chitarra. NY Excuse è contenuta anche in Stu, primo album completo dei Waines, che succede all'apprezzato EP del 2007 A Controversial Earl Playing.

[Clicca qui per continuare a leggere l'articolo di Paolo Bassotti su Gibson.com]


Video - Waines - Let Me Be

sabato 5 dicembre 2009

Sweet Emotions – La storia degli Aerosmith in dieci momenti da ricordare

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Che succede in casa
Aerosmith? In molti si sono ormai convinti di non poter più vedere la boccaccia rock di Steven Tyler, eterno satiro dagli abiti improbabili, al fianco di Joe Perry, uno dei volti simbolo delle chitarre Gibson (http://player.gibson.com/june03/perry.html). I “Toxic Twins”, le due colonne della band di Boston, una delle coppie più celebri del rock, sembrano proprio essersi sorprendentemente divisi.

Dopo essere caduto dal palco ad Agosto nel corso di un concerto in Sud Dakota (incidente che ha causato l'annullamento del tour estivo) Tyler si è allontanato dal gruppo, semplicemente decidendo di pensare agli affari propri, e smettendo di rispondere alle telefonate degli altri. Il resto della band, evidentemente infastidito da tale comportamento, non ne ha fatto un dramma. Anzi, proprio il “gemello” di Tyler, Joe Perry (che a Ottobre ha pubblicato un nuovo album solista, Have Guitar, Will Travel) ha subito dichiarato di stare pensando a un nuovo cantante per sostituire il frontman degli Aerosmith.

Il 10 Novembre, durante i bis di un concerto a New York del Joe Perry Project Show, Steven Tyler è però salito a sorpresa sul palco, per allontanare le voci di una scissione, e per cantare ancora una volta Walk This Way con il compagno di sempre. Perry ha però chiarito in seguito che tra i desideri di Steven c'è quello di prendersi un paio d'anni di pausa dalla band, e che gli altri membri del gruppo, come ha confermato anche il batterista Joey Kramer, non sono disposti ad aspettare.

Ripercorriamo, attraverso dieci video, le tappe principali della carriera degli Aerosmith, una storia fatta di grandi successi e di crisi drammatiche.

1 – 1973 – Il primo album: rock, blues e Dream On.

L'album omonimo di debutto esce nel '73, e già presenta il riconoscibile sound della band (che oltre a Tyler e Perry vede Brad Whitford alla chitarra ritmica, Tom Hamilton al basso e Joey Kramer alla batteria): hard rock di derivazione blues, con la sensualità dei Rolling Stones e la durezza dei Led Zeppelin. Accanto al blues rovente di Mama Kin, troviamo anche la prima grande ballad, Dream On: una composizione giovanile di Steven Tyler, con un testo ingenuo ma trascinante, forte di un'evocativa introduzione al piano e di un'ambiziosa orchetrazione. Il singolo di Dream On arriverà nella top ten solo dopo esser stato ripubblicato nel '75, in seguito al successo di Toys In The Attic. Il brano accompagnerà il gruppo fino ai giorni nostri, passando anche per Sing For The Moment, la rilettura di Eminem – approvata dalla band – uscita nel 2002.


[Clicca qui per continuare a leggere e a ascoltare i dieci grandi momenti della storia degli Aerosmith, raccolti da Paolo Bassotti per Gibson.com]
Video - Aerosmith - Dream On

martedì 1 dicembre 2009

Direzioni diverse - Intervista al Teatro degli Orrori (Seconda Parte)

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Continua la nostra conversazione con Giulio Favero, bassista del Teatro degli Orrori e produttore del loro grande secondo album, A Sangue Freddo. Parliamo di poesia e speranza, di pop ed esperimenti, e conosciamo meglio Giulio scoprendo la sua storia e le sue passioni, così come il rapporto del gruppo con gli strumenti Gibson.


Di Paolo Bassotti


Paolo Bassotti: A Sangue Freddo mi sembra trasmettere, sia nei testi che nelle musiche, l'idea di uno scontro tra rabbia e sfiducia. Chi ne esce vincitore? Vale ancora la pena combattere per cambiare l'Italia – o il mondo! – o ha senso rifugiarsi nella propria intimità?


Giulio Favero: Ti rispondo con una domanda: se la tua libertà fosse come l'acqua, combatteresti per poter bere? Vale sempre la pena di combattere per sopravvivere: qui non si tratta solo di cambiare il mondo o l'Italia, qui si tratta di fare la rianimazione forzata a una società che sta semplicemente spegnendosi di fronte ai soprusi più infami della storia moderna. Ci sono un miliardo di persone nel mondo che soffrono la fame, e ci sono poche migliaia di persone che ne hanno le responsabilità: io non sono un ottimista, ma tra lo stare inerme di fronte a questo, e fare anche solo un passo verso il miglioramento, scelgo la seconda.


Due poeti sono protagonisti di due canzoni: Ken Saro Wiwa e Vladimir Majakovskij. La passione per la poesia è condivisa da tutta la band? Ci sono altri scrittori che ti piacciono, e che hanno ispirato A Sangue Freddo?


Per quanto mi riguarda, non sono un appassionato di letture: diciamo che uso più le orecchie che gli occhi. Le scelte dei temi sono sempre di Pierpaolo (Capovilla, ndr), per cui il vero esperto è lui; in ogni caso tutti conveniamo sul fatto che le poesie di Majakovskij sono semplicemente incredibili, e che la poesia ci rende un po' meno bestie di quello che in realtà siamo.


Come mai avete deciso di aprire il disco con un pezzo anomalo come Io ti aspetto?


Perché ci piaceva l'idea che qualcuno ci facesse questa domanda! Scherzo ovviamente; se hai notato l'inizio di Io ti aspetto è identico alla fine di Mariamaddalena: ci piaceva l'idea di mantenere una specie di filo che collegasse i due dischi. Volevamo inoltre che il disco avesse un andamento diverso dal precedente, meno aggressivo all'inizio per poi intensificarsi con l'ascolto, per poi rilassarsi di nuovo. Il primo e l'ultimo pezzo parlano del tempo, che sembra non passare mai quando si soffre, e che invece ti porta di nuovo, inesorabilmente, verso la "fine".


Sul vostro sito scrivete che inizialmente Direzioni Diverse non vi convinceva. Che cosa non andava? Come è andata la collaborazione con Bob Rifo/Bloody Beetroots?

[Clicca qui per leggere il seguito dell'intervista di Paolo Bassotti a Giulio Favero del Teatro degli Orrori su Gibson.com - Clicca qui per leggere la prima parte dell'intervista]


Video - Il Teatro degli Orrori - La canzone di Tom


martedì 17 novembre 2009

Sto provando a spezzarti il cuore – I trionfali concerti italiani dei Wilco

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– Qual è, secondo te, lo strumento più cool del mondo?
– Ce l'ho, è una chitarra Gibson Barney Kessel. Ha un doppio cutaway che ricorda le corna di un diavolo, ed è un'enorme hollow-body degli anni '60. Me l'ha regalata mia moglie per Natale.
(Jeff Tweedy dei Wilco, in un'intervista del 2003 a Rolling Stone)

Al concerto dei Wilco al Teatro la Pergola di Firenze, Tweedy tira fuori la sua amata Gibson Barney Kessel solo per uno degli ultimi brani dell'esaltante serie di bis finali, Walken, trottante estratto da Sky Blue Sky (2007). Prima s'affida a una Gibson ben più nota, la SG, che alterna in tre versioni differenti, tra le quali una splendida SG Special Faded di color Heritage Cherry. Con le sue SG, Tweedy non si risparmia negli assoli, e la sua capacità di essere assieme cantautore, frontman e guitar hero (questo è vero rock, non siamo in un videogioco) rende naturale immaginarlo come il principale erede di Neil Young. Certo, ci vuole coraggio, se non faccia tosta, a lasciarsi andare con la sei corde, quando al proprio fianco si ha un gigante come Nels Cline. Ma è necessario che Tweedy lo faccia: si dimostra perfetto nel ruolo di leader proprio nel saper passare dalla tensione dell'intimità alla liberazione delle lunghe tirate elettriche. Ha un controllo eccezionale del pubblico, in suo ogni gesto c'è la capacità di trasformare le proprie emozioni in sensazioni comuni. Potrebbe usare la musica come i fili di un burattinaio, ma rifiuta ogni manipolazione. Sembra invece che sia lui stesso ad andare a scavare nella verità di chi gli sta davanti, facendo in modo che i pochi fortunati che hanno trovato un posto possano essere, semplicemente sentendo la musica, coprotagonisti delle due ore e mezza di show...

[Clicca qui per continuare a leggere l'articolo di Paolo Bassotti su Gibson.com]

Wilco - Walken

lunedì 9 novembre 2009

Direzioni diverse – Intervista al Teatro degli Orrori (Prima parte)

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A sangue freddo
, il secondo album del Teatro degli Orrori, è un disco forte. È un perentorio, quasi temerario, atto di fiducia nei confronti della potenza di musica e parole. D'un tratto, quasi tutto il resto del rock italiano (e non solo) sembra timido, condannato a confrontarsi con futili questioni quali generi e mode. Il Teatro degli Orrori arriva, ti si piazza a un centimetro dal naso, e ti dice quello che ha da dire, con sicurezza sfacciata, anche quando affronta il dubbio. Si inizia – ed è uno shock – con Io t'aspetto, dalle parti di Tenco e Piero Ciampi (o dei La Crus, per andare a un'altra generazione). Ci si attende un rumore familiare, si viene invece accolti dal suo contrario. È un gesto che serve a mettere le cose in chiaro: qui comandano gli artisti, sono loro che dettano i tempi, i temi, e si prendono pure il gusto di far sudare all'ascoltatore l'arrivo del rock. Quando, dopo quattro minuti d'attesa, con Due arrivano il primo riff e il primo colpo di batteria, è come se si spalancasse una finestra aperta sul chiasso crudele di un mondo alle prese col Giudizio Universale. Il Teatro degli Orrori traccia la mappa di tale terra desolata, ritornando con ostinazione sulle macerie di un amore, come se l'impossibilità della felicità di coppia fosse la metafora necessaria del Trionfo della Fine (persino la strafottente Mai dire mai finisce inghiottita da vecchie fotografie e da un dolente “tesoro ripensaci”). Pierpaolo Capovilla è uno spettacolo nello spettacolo. Mille voci, infinite invenzioni, per trascinare l'ascoltatore da un capo all'altro di un discorso spezzato e allo stesso tempo coerente. S'inabissa nella tenebra del lutto, urla di collera; ora fa scherzi spaventosi, con la voce da cattivo di cartoon, ora si indigna, e gli si crede sempre. Cita di tutto: film, preghiere, musica leggera (si potrebbe fare un lungo elenco che va da Nanni Moretti a Celentano). Li elabora in una poetica profondamente personale, fondata proprio sui repentini cambi di registro, sulle continue evocazioni di contesti e immagini, così come sull'infinito ribadire la propria ossessione per la verità. Più attore che cantante, a volte s'agita con l'aria di un ipnotico e bizzarro capopopolo su di una scaletta ad Hyde Park (“Che cosa ha in testa certa gente?” si chiede sfinito al termine di Alt); a volte, invece, è improvvisamente umano, vulnerabile, e ci si convince che non possa rappresentare altro che sé stesso...
[Clicca qui per leggere la prima parte dell'intervista di Paolo Bassotti a Giulio Favero del Teatro degli Orrori su Gibson.com]

Video - Il Teatro degli Orrori - A Sangue Freddo

lunedì 2 novembre 2009

I grandi album Gibson – ZZ Top – Degüello

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“Una parte fondamentale del trio è sempre stato lo stile “al contrario” della band... con una chitarra molto bassa e il basso in un ruolo quasi da leader, tenuti insieme da una batteria che sembra un serpente a sonagli. Il vero elemento magico è stata Pearly Gates, la Gibson Sunburst Les Paul Standard del 1959. Acquistai questa chitarra – che era stata rinvenuta sotto a un letto – senza immaginare quanto fosse in grado di suonare pericolosa. Era stata fatta in uno di quei giorni magici, nei quali tutto è perfetto: la colla, il legno, i componenti elettronici. Devo ancora trovare uno strumento in grado di eguagliare la sua potenza brutale.”

Da questo breve estratto dalla sua autobiografia, Rock + Roll Gearhead, è facile capire quanto Billy Gibbons degli ZZ Top ami la sua Pearly Gates. Quando la “tradì” con una chitarra della concorrenza, per registrare uno strumentale incluso in Rio Grande Mud (1972), si sentì addirittura in dovere di scusarsi con lei, e intitolò il brano Apologies To Pearly!

Anche per Degüello (1979), album chiave della discografia degli ZZ Top, Gibbons utilizzò in quasi tutti i brani Pearly Gates (abbinata a una pedaliera assemblata agli Haley Labs di Austin e agli amplificatori a valvole Jake Stack's Rio Grande); l'unica eccezione fu Cheap Sunglasses, per la quale adoperò la chitarra rosa donatagli da Jimi Hendrix. Degüello arrivò in un momento particolare della storia del trio di Houston...

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ZZ Top - Cheap Sunglasses


giovedì 22 ottobre 2009

Il canto dell'Elvis elettrico – Il Re, la Gibson Super 400 CES e il Comeback Special

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“...dal caos possono nascere la vera comprensione e l'armonia e, comunque vada a finire, è stato Elvis a far partire questa valanga, praticamente da solo. […] Posso garantirvi una cosa: non saremo mai più concordi su una cosa tanto quanto lo siamo stati su Elvis.” (Lester Bangs)

Quando si fa la storia del rock, facile che ci sia una Gibson dei paraggi. Il Re non fa eccezione. Molti dei suoi grandi successi sono legati al leggendario marchio nato a Kalamazoo.

Una delle serate più esaltanti del percorso artistico di Elvis Presley ha a che fare con un volontario e inaspettato scambio di chitarre, avvenuto tra lui e il suo storico chitarrista, Scotty Moore. Due chitarre firmate Gibson!

L'evento di cui si parla è Singer Presents ELVIS, lo show natalizio registrato nel Giugno del 1968 e trasmesso dalla NBC il 3 Dicembre dello stesso anno, uno spettacolo comunemente conosciuto come il '68 Comeback Special. Comeback perché per Elvis fu un vero e proprio ritorno dopo anni opachi: una mossa fondamentale, capace di rilanciare la sua carriera, di ristabilire la sua rilevanza. Il servizio militare, i troppi film di scarso livello (con le relative colonne sonore, sempre assemblate in malo modo) e soprattutto la British Invasion, con l'avvento di giovani star quali Beatles e Rolling Stones, avevano infatti indebolito il più grande divo degli anni d'oro del rock and roll, confinandolo nella posizione comoda, ma poco desiderabile, di vecchia reliquia. Un mito affascinante, incapace però di poter emozionare ancora con la propria musica...

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Video - Elvis - That's Alright

lunedì 19 ottobre 2009

Reckless Life - Il cast di Slash & Friends, il disco solista di Slash

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Quando si hanno alle spalle anni di carriera e successi, uno dei metodi più efficaci per attirare l'attenzione sul proprio album è quello di registrarlo con un cast di celebrità del pop e del rock. La prassi è che la star di turno raduni gli ospiti tra i propri amici, tra giovani colleghi desiderosi di farsi fotografare accanto al proprio mito, e talvolta anche tra artisti completamente inopportuni, strategicamente proposti dalla casa discografica.

Negli ultimi anni abbiamo visto un'infinità di dischi pieni di invitati eccellenti, con risultati molto vari. Ci sono stati grandi esiti artistici, come O Corpo Sutil (The Subtle Body) (1995) di Arto Lindsay, nel quale sfilano i grandi Brian Eno, Bill Frisell, Marc Ribot, Ryuichi Sakamoto, sempre attenti nel limitarsi ad aggiungere lievi sfumature, per non guastare la delicatezza delle canzoni con la loro presenza ingombrante. Abbiamo assistito a trionfi commerciali, come Supernatural (1999) di Santana, 27 milioni di copie vendute affiancando la chitarra di Carlos ai nomi più diversi, da Dave Matthews a Eric Clapton, da Lauryn Hill ai Manà. Sono stati però innumerevoli i dischi di duetti stucchevoli, pensati a tavolino da qualche discografico privo di buon gusto, così come non sono mancate storie di collaborazioni che inizialmente promettevano bene e che invece si sono rivelate occasioni perdute. Ad esempio, nell'opaco disco di Bob Dylan Under The Red Sky, è praticamente impossibile accorgersi della presenza di Crosby, Nash, Stevie Ray Vaughan e Slash.

Proprio Slash, l'ex chitarrista dei Guns N'Roses, uno degli uomini simbolo delle chitarre Gibson, sta preparando il proprio debutto solista, Slash & Friends, un album di duetti progettato da anni, che dovrebbe uscire tra Febbraio e Marzo del 2010 (le tappe della sua lavorazione si possono seguire sulla pagina di Slash su Twitter). Slash è un uomo aperto alle infinite possibilità del pop: l'abbiamo visto con Michael Jackson, con Rod Stewart, con gli Chic, con Vasco Rossi. Diamo allora un'occhiata alla straordinaria lista degli invitati a suonare in Slash & Friends, per cercare di capire che cosa possiamo aspettarci (tenendo sempre conto che in molti casi si tratta solo di voci). Iniziamo dai due collaboratori fissi, che del disco costituiranno la sezione ritmica...


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mercoledì 14 ottobre 2009

Vade retro, Santa! - Christmas In The Heart, l'album natalizio di Bob Dylan

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Dylan ci avvisa che Santa Claus sta arrivando, e poco importa che sia solo Ottobre, e che la sua voce ci faccia pensare a un Babbo Natale con un sacco pieno di carbone. Bob sorprende ancora, affrontando con passione il repertorio natalizio, una nuova tappa del suo lungo viaggio nella musica americana.

Nel 1975 il New Musical Express pubblicò, per ridere coi propri lettori, la finta recensione di Snow Over Interstate 80, un immaginario album di canzoni natalizie registrato da Bob Dylan a metà degli anni '60. Passano i decenni, e l'idea in apparenza ridicola di un “Bob Dylan Christmas Record” diviene finalmente realtà. L'annuncio dell'uscita di Christmas In The Heart ha colto tutti di sorpresa, vista anche la distanza ravvicinata da Together Through Life, il più recente lavoro del genio di Duluth, nei negozi da fine Aprile 2009. Le reazioni iniziali dei fan sono state principalmente incredule e divertite, animate da un forte scetticismo, mitigato solo dalla notizia che Dylan avrebbe devoluto tutte le sue royalties alle organizzazioni benefiche Feeding America e World Food Programme.

Christmas In The Heart non va però considerato solo come un'occasione per fare beneficienza, avendo un valore artistico e un ruolo preciso nella produzione di Dylan. Innanzitutto va detto che...

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Video - Bob Dylan - The Christmas Blues

mercoledì 7 ottobre 2009

Gimme some truth! Intervista agli Zen Circus (Seconda parte)

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Ora come ora ho una grande paura di morire, quindi voglio fare fare fare, fino a farmi male.”

Continua la chiacchierata con Appino degli Zen Circus. Stavolta si parla del meglio del rock del Paese Reale, di collaborazioni frettolose e non, e di come le proprie storie – e i propri amici, più o meno turbolenti – entrino talvolta nelle canzoni.


Paolo Bassotti: Alcune storie sono tanto vivide da parere autobiografiche! Penso a L'egoista o a Amico mio, ad esempio.

Appino: Lo sono infatti, non tutte ma molte. Quelle due in particolare, insieme a Figlio di Puttana e Vent'Anni in Villa Inferno.


Parlando di Amico mio, mi pare che ti colpisca molto il problema di come si possa crescere e invecchiare senza smettere di sognare, senza diventare come chi un tempo si odiava. Come ti immagini tra dieci anni?

Ah beh non ne ho la più pallida idea. Spero solo sano; le malattie sono orribili.

Chi non ha un amico che ha deciso di mettere la testa a posto? Ammesso che non lo abbiate fatto anche voi. Io sinceramente credo proprio di non averlo fatto, e non me ne faccio assolutamente un vanto. Ma così come non avere una macchina a trentuno anni, avere mezzi denti cariati e problemi a mesi alterni a comprarmi le sigarette provoca ilarità in molti miei coetanei, così mi diverto anche io a vedere come molti di quelli che han fatto le cose a modo – ripudiando o abbandonando tutto quello che prima ritenevano giusto e bello – si sono poi ritrovati in situazioni grottesche o ancora peggio, in una sorta di replay degli errori dei loro genitori. Ognuno ha il diritto di fare cosa gli pare, ma l'amaro resta. L'amaro di perdere cervelli validi per colpa di convenzioni futili. E si torna al punto di partenza, là dove il 99% dei nostri problemi ha avuto origine: il nucleo familiare inteso come centro assoluto dei rapporti umani. E di nuovo, lo vedi da te, la religione. E' un cane che si morde la coda...


Veniamo alle collaborazioni. Come è nata quella con Nada? È interessante il fatto che Vuoti a perdere non sia un duetto, che lei sia la voce solista per l'intera canzone.

Così doveva essere. È un'altra storia autobiografica, ma c'era bisogno di una voce femminile perché lo fosse davvero. Siamo fan di Nada – oltre al fatto che lei è livornese di origine e noi pisani, quindi è un po' come aver superato delle barriere razziali – e nel nostro primo disco in Italiano volevamo assolutamente che ci fosse qualcuno che la musica Italiana l'ha vissuta ai tempi d'oro, gli anni sessanta e settanta. Chi meglio di lei?


[Clicca qui per leggere la seconda parte dell'intervista di Paolo Bassotti ad Appino degli Zen Circus su Gibson.com. Per leggere la prima parte clicca qui]


(Le fotografie nell'articolo sono di Ilaria Magliocchetti)


The Zen Circus – Canzone di Natale


The Zen Circus – I baNbini sono pazzi

mercoledì 30 settembre 2009

Gimme some truth! Intervista agli Zen Circus (Prima parte)

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Gli Zen Circus hanno realizzato il loro primo disco interamente in italiano, intitolandolo, senza giri di parole, Andate Tutti Affanculo. Uno scoppio di rabbia verso tutti i mali e i mostri del Bel Paese, che allo stesso tempo riesce a essere un sincero atto d'amore. Un grande album, forte dell'apporto di Nada, Giorgio Canali e degli amici storici Brian Ritchie dei Violent Femmes e Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Abbiamo intervistato Appino, cantante del gruppo e autore dei testi, per capire che cosa c'è dietro al furore che muove le dieci nuove canzoni.

Se Dio esistesse, benedirebbe il giorno in cui ho capito che ero bello, bellissimo, proprio come ero, così sbagliato.” Intervistare Appino degli Zen Circus vuol dire ritrovare le stesse parole che scrive per le sue canzoni, quelle schegge di poesia di strada che con Ufo (basso) e Karim (batteria) da anni trasforma in furioso e ironico rock and roll. In Andate Tutti Affanculo, Appino sembra l'Edward Norton di La venticinquesima ora, che sfinito e spietato davanti allo specchio demolisce in un uragano di “fuck you!” tutto il marcio della società, tutta l'ipocrisia, senza esitare infine a condannare anche sé stesso. Grida la propria voglia di comunicare, di farsi sentire, come se urlando si potesse finalmente dare un senso a tutta la follia che muove il conformismo, come se smascherando le bugie si potessero disinnescare le trappole che impediscono a ognuno di riconoscere una parte di sé in chi gli sta davanti. Villa Inferno, l'album dell'inizio del 2008, aveva attirato l'attenzione inizialmente per gli ospiti internazionali: il socio Brian Ritchie, Jerry Harrison (Modern Lovers, Talking Heads), le sorelle Deal (Pixies, Breeders); a emergere col tempo erano state però le canzoni in italiano, principalmente Figlio di puttana e Vent'anni, divenute le più apprezzate nei formidabili concerti degli Zen Circus. Il nuovo lavoro discende direttamente da quelle canzoni (e anche da vecchie sfuriate, come I baNbini sono pazzi) e ci mostra una band che ha raggiunto la piena consapevolezza delle proprie capacità. Tutto funziona a meraviglia, con il solito asciutto e gustoso rock and roll da buskers con l'anima punk, a sostegno di canzoni ispirate, nelle quali sfila una dolente processione di personaggi memorabili. Tutti sembrano essere allo stesso tempo vittime e carnefici, da L'egoista del brano d'apertura alle statuine del presepe tossico della conclusiva Canzone di Natale, passando per il bimbo che si fa assassino per capire la morte di It's Paradise o alla Ragazza Eroina, con la giacca usata e le scarpe firmate, che balla con allegria le canzoni di Tenco. Naturalmente viene spontaneo chiedere quanto spazio ci sia per la pietà in un tale scenario. Abbiamo pertanto iniziato domandando le ragioni di un tale approccio, per andare magari in cerca di un modo per non perdere completamente la fiducia nel futuro e negli italiani.


Paolo Bassotti: Il disco nuovo mi è sembrato una sorta di giudizio universale, nel quale viene condannata tutta l'Italia di oggi. Contiene persino più rabbia e disprezzo dei dischi precedenti. Come mai avete deciso proprio ora di registrare un album tanto aggressivo?

Appino: Il momento storico è sicuramente propizio. E poi trovavamo che di gruppi (indie?) rock che parlano come mangiano ce ne sono troppo pochi. Non siamo aggressivi in realtà, il disco, a partire dal titolo, contiene dieci ritratti di qualunquisti. Non siamo necessariamente noi, noi siamo solo il medium degli italiani qualunquisti. E il qualunquismo, fidati, è aggressivo per natura.


Non salvate proprio nessuno, in questo paese? Dove si può trovare un po' di speranza per il futuro?

Ma che! Salviamo tutto, il paese stesso. E' meraviglioso, forte, lasciatevelo dire da chi lo ha girato con gli occhi da bambino per dieci anni, in cambio di un sogno e di qualche piatto caldo. La speranza nel futuro sta nei valori: che la comunità, finalmente, venga prima della famiglia!

[Clicca qui per continuare a leggere l'intervista di PaoloBassotti a Appino degli Zen Circus su Gibson.com]

(Le fotografie sono di Ilaria Magliocchetti)

Video -
The Zen Circus – Punk Lullaby (Con Kim Deal, Kelley Deal e Brian Ritchie)

martedì 29 settembre 2009

La penna avvelenata e i 100 più grandi chitarristi metal – Intervista a Joel McIver

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Ci vogliono coraggio e fiducia in sé stessi per mettere in fila cento tipi con le facce da duri, pieni di muscoli e tatuaggi. I fan del metal, spesso davvero preparati, bruciano di entusiasmo e passione: chi decide di scrivere un libro-classifica sui migliori chitarristi, sa a quante critiche andrà incontro. Joel McIver scrive di musica, specialmente di metal e di chitarre, da talmente tanto tempo – e con tanta competenza – da potersi permettere anche un simile Giudizio Universale. Lo abbiamo intervistato proprio per parlare della sua provocatoria lista, approfittando dell'occasione per avere anche qualche dettaglio sugli altri suoi libri.

Joel McIver non si ferma davanti a niente. Da anni è uno degli autori più preparati e instancabili del giornalismo musicale, e non ha mai esitato di fronte a nessuna sfida. Ha scritto un libro dopo l'altro, sempre al servizio del lettore, analizzando ogni volta, con incessante impegno nella documentazione, sia la personalità che la produzione artistica dei suoi soggetti. Ha affrontato impegni difficili, come la biografia definitiva del gruppo che gli ha cambiato la vita, i Metallica (Justice For All – La verità sui Metallica, pubblicato nel 2004 da Arcana), o le storie di personaggi distanti dal suo mondo di chitarre rombanti, quali Ice Cube o Erykah Badu. Non si è di certo spaventato di fronte a una nuova idea pericolosa, fatta apposta per far discutere i metallari e gli appassionati di chitarra di tutto il mondo: un volume, strutturato come una classifica, intitolato I 100 più grandi chitarristi metal. Ogni sua scelta pare destinata a suscitare polemiche, a cominciare dall'esclusione di alcuni grandi nomi, tagliati fuori in quanto considerati appartenenti al mondo dell'hard rock più che a quello del metal. Tanto per fare due esempi, niente Randy Rhoads o Eddie Van Halen. Ancor più clamore è scaturito dall'ordine nel quale una penna prestigiosa come McIver ha posizionato i vari musicisti. In vetta alla classifica – mi si perdoni lo spoiler – c'è infatti sorprendentemente Dave Mustaine dei Megadeth, una scelta per nulla scontata, così come il fatto che.Jeff Waters degli Annihilator si guadagni il podio, mentre per Kirk Hammett dei Metallica non ci sia posto nella top ten. Abbiamo chiesto qualche chiarimento allo stesso McIver, ora che anche in Italia è uscito I 100 più grandi chitarristi metal, edito da Tsunami (http://www.myspace.com/tsunamiedizioni; in questi giorni, per la stessa casa editrice, esce inoltre anche Cliff Burton – To Live is To Die, dedicato al compianto bassista dei Metallica)

Paolo Bassotti: Quali sono state le reazioni dei musicisti che hai inserito (o non inserito!) in I 100 più grandi chitarristi metal? Ho letto che Dave Mustaine si è sentito onorato del suo primo posto in classifica, ma immagino anche che qualcuno possa essersi arrabbiato per via delle tue scelte.

Joel McIver: Finora le reazioni sono state tutte buone. Ho sentito circa 20 dei 100 tizi, e malgrado non tutti siano stati d'accordo con le mie scelte, sono stati tutti felici di essere stati inseriti nel libro. Non ho avuto alcun feedback negativo. Se qualcuno s'arrabbiasse, vorrebbe dire che la sta prendendo troppo seriamente – è solo un libro! Comunque mi ha reso davvero felice sapere quanto Mustaine si sia compiaciuto di essere al numero 1, perché lo rispetto davvero molto.

[Clicca qui per continuare a leggere l'intervista di Paolo Bassotti a Joel McIver su Gibson.com]

Video - Black Sabbath – War Pigs

giovedì 24 settembre 2009

Svegliandosi un mattino da sogni inquieti - Primary Colours, la metamorfosi di The Horrors


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A volte il mondo del rock riesce ancora a riservare belle sorprese. È il caso di The Horrors, gruppo inglese liquidato agli esordi come poco più di una trovata commerciale, capace ora, giunto al secondo album, di dimostrare a che cosa possono servire un'impeccabile collezione di dischi e l'ossessione per i vecchi film del terrore.

Guardi The Horrors e non ci credi. Sembrano un pigro piano di marketing. Cinque ragazzetti inglesi magri come spilli, vestiti di nero da capo a piedi, i pallidi visi truccati, le pettinature prese in prestito alla sacra triade degli arruffati – Burton/Smith/Sandman. Nelle fanzine che distribuivano ai loro primi concerti non si limitavano a rivolgersi all'esercito degli indie kids coi pantaloni strettissimi sul polpaccio: si premuravano di includere una rubrica su come rendere tali pantaloni ancora più stretti, presumibilmente per parere tutti assieme finalmente delle silhouette, diafane ombre cinesi, proiettate nel teatrino a due dimensioni della musica prêt-à-porter. Facile odiarli, vero?

Anche primi indizi sulla musica – quattro anni fa – non promettevano bene. Non perché non fosse gradevole il loro revival da famiglia Addams dei grandi oscuri della new wave - riletti con una benvenuta passione per il garage degli anni '60 e per il pop d'epoca Spector. Semplicemente tutto sembrava solo una scorciatoia verso la prima pagina del New Musical Express, una trovata furba quanto le sparate dei Kasabian e dei Razorlight, da dimenticare in dieci minuti come le parodie dei Goldie Lookin Chain. Come pigliare sul serio un gruppo dove batterista e tastierista si fanno chiamare, rispettivamente, Coffin Joe e Spider Webb?

[Clicca qui per continuare a leggere l'articolo di Paolo Bassotti su Gibson.com]

Video
- The Horrors – Who Can Say

lunedì 21 settembre 2009

Odio l’estate? 10 grandi canzoni contro la bella stagione

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10. Latte e i Suoi Derivati – Il ballo dell’estate

Tormentoni. Grossi fastidi, ritornelli killer, pronti per lo stacchetto, per la suoneria, per il megaspot. Alcuni riescono addirittura a sopravvivere fino al film di Natale. La domanda risuona nei tg: qual è la canzone dell’estate? Basta fare un giro tra le radio (quelle vecchie con la manopola danno più soddisfazione): tra le stazioni commerciali s’alternano i soliti due pezzi freschi freschi – e già un po’andati a male – ai quali non si può sfuggire. Ti si attaccano al cervello come una medusa, e che piacere dimenticarli, almeno fino al prossimo Amarcord poco fantasioso. I più temibili arrivano corredati di ballo imperativo, una mano en la cabeza, una mano en la cintura, un passo avanti, due passi indietro, to the left, to the right, muoviamo assieme queste mani, come farebbero i marziani. Troppo. Anche Lillo è perplesso: “E che so’ un polipo?”

9. 50 Foot Wave – Clara Bow

“I mangiatori di colla amano questa triste stagione.” Per l’esordio coi 50 Foot Wave, un fantastico EP senza titolo del 2004, Kristin Hersh trova parole di inequivocabile aggressività, malgrado – come nei Throwing Muses e nei suoi brani solisti – preferisca evocare, piuttosto che spiegare. La musica è la più feroce che l’artista abbia mai prodotto. In Clara Bow la fine di una relazione e lo smascheramento delle sue ipocrisie (“non ti ho mai usato, ma avrei voluto”), hanno il sapore appiccicoso dei mesi più caldi: “con le labbra bruciate dal sole, posso lamentarmi di un’altra stupida estate.” Pare quasi di vedere il malcapitato che soccombe sotto ai suoi colpi. Kristin non fa prigionieri: “Le ossa sono fatte per essere rotte!”

8. Elvis Costello – The Other Side Of Summer

Elvis Costello è sempre stato un maestro di rabbia e sarcasmo, sfiorando la paranoia – con tanto di look “spaventoso” con barba e capelli lunghi – con l’album Mighty Like A Rose (1991), morbido nei suoni ma tagliente come ai vecchi tempi. Quale occasione migliore delle vacanze perché Elvis possa lanciarsi in un ennesimo giudizio universale, una nuova crociata contro i luoghi comuni? Il sound di The Other Side Of Summer è un omaggio alle spiagge dei Beach Boys, ma le parole fanno a pezzi ogni tentazione di sentirsi “solari,” lamentandosi per un altro compleanno indesiderato (Costello è nato in Agosto) e prendendosela con vecchi e nuovi ricchi, squallidi arrivisti che si muovono in un desolante scenario urbano, fatto di plastica e cartone. Memorabile il verso per John Lennon: “È stato o no un milionario a dire imagine no possessions?”

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Video - Adriano Celentano - Azzurro

lunedì 14 settembre 2009

Quando la città cade nella notte – Addio a Jim Carroll, poeta del punk di New York

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Jim Carroll ci ha lasciati. Aveva 60 anni, ed è morto a causa di un attacco di cuore. Con Catholic Boy aveva realizzato uno dei dischi simbolo del punk, una fusione perfetta di chitarre ruvide e poesia di strada. Ricordiamo in questo articolo il suo lavoro migliore e il suo indimenticabile percorso come scrittore.

“Mary s’è fatta un tuffo senz’acqua dalla sua stanza d’albergo, Bobby s’è impiccato in galera, Judy è saltata incontro al metrò, Eddie si è beccato uno sgarro alla giugulare. Eddie, mi manchi più di tutti gli altri, questa canzone è per te, fratello.” Jim è morto per un attacco di cuore a 60 anni, l'11 Settembre 2009, mentre stava alla sua scrivania a lavorare.

Jim Carroll, poeta, punk rocker. Ci mancherà, questo è sicuro.

People Who Died – dalla quale sono tratti i versi che aprono questo articolo – è uno straordinario resoconto, commovente e brutale, delle persone care che Carroll aveva visto cadere una dopo l'altra attorno a lui, ed è contenuta nel suo primo album, Catholic Boy (1980), uno dei capolavori del punk newyorkese. Un disco magistrale nel rompere le barriere tra rock e poesia, al pari delle migliori opere di altri giganti di strada, che al suo fianco strappavano la meraviglia e l'orrore dal cuore di New York, per farne arte, senza paura di chiamarla tale. Dischi come Horses (1975) di Patti Smith, o Blank Generation (1977) di Richard Hell & The Voidoids. L'approdo alla musica per Carroll era stato al tempo stesso casuale e inevitabile, in un ambiente tanto ricco di stimoli, incontri e fermento, che pareva ronzare come il feedback delle chitarre del CBGB's.

[Clicca qui per continuare a leggere l'articolo di Paolo Bassotti per Gibson.com]

[Clicca qui per La lista delle liste, con qualche parola in più sulla canzone People Who Died]


Video - Jim Carroll Band - People Who Died [Video Edit]

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