sabato 29 agosto 2009

Non è peccato – Horehound, il primo album dei Dead Weather

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Prendete Jack White dei White Stripes e mettetelo alla batteria. Si sposterà volentieri dietro piatti e tamburi, anche perché sa di poter esser protagonista in qualunque posizione. Affidate il microfono a Alison Mosshart dei Kills, e completate il gruppo con Jack Lawrence, bassista dei Raconteurs, e Dean Fertita dei Queens Of The Stone Age alla chitarra e alle tastiere. Ecco i Dead Weather, il nuovo supergruppo alternativo, che ha appena pubblicato Horehound, un interessante esordio nel nome del rock più sensuale e dannato.

Jack White è uno dei grandi stacanovisti del rock. Con l’implacabile ritmo dei macchinari industriali della sua Detroit, gira in tour, incide album, fonda nuovi gruppi, fa il produttore per i colleghi che gli stanno più a cuore. Qualche settimana fa, in un articolo sui supergruppi rock alternativi, parlavamo di quegli artisti che proprio non sanno dire no a un collaborazione insolita o a un side project. Musicisti come Peter Buck dei R.E.M. e Demon Albarn dei Blur, sempre pronti a farsi trovare dove meno te li aspetti, in un album di fusion o in un’opera cinese. Spesso si tratta solo di vanità. Jack White invece deve lavorare in continuazione per non smettere di mettersi alla prova. Sa di avere grandissime potenzialità espressive, e cerca pertanto nelle nuove esperienze delle limitazioni che gli consentano di dare una direzione alla propria libertà. Del resto anche i White Stripes, la sua band principale, nascono come una restrizione destinata ad aprire un mondo di possibilità: vediamo che succede a inventarsi un gruppo di due persone sole, con una batteria – a cura dell’insostituibile Meg – tanto spartana che al confronto Maureen Tucker sembra Jeff Porcaro. Succede di tutto, ovviamente. Accade che il rumore nudo dei White Stripes spazzi la concorrenza di chi si affida solo ai trucchi da studio, e che finalmente l’indie ammetta di amare tutta la tradizione rock, senza dover curarsi di quanto possano essere cool Led Zeppelin e Grand Funk.

I Dead Weather sono il nuovo gruppo di Jack, scaturito con naturalezza da alcune sue esperienze precedenti. Innanzitutto c’è la canzone Another Way To Die, realizzata con Alicia Keys (“I was thinking ‘bout Alicia Keys,” cantava il maestro) per il film della saga di James Bond Quantum Of Solace. Il brano non è particolarmente memorabile, ma fa tornare White, autore e produttore, a sedersi dietro a una batteria, come quando aveva meno di vent’anni e suonava, facendosi chiamare Doc Gillis, per la “cowpunk band” Goober And The Peas. Poco prima della fine del faticoso tour del 2008 del suo secondo gruppo (ormai amato dal pubblico tanto quanto i White Stripes), i Raconteurs, White si ritrova senza voce. Lo sostituisce VV, ovvero Alison Mosshart, la cantante dei Kills, un duo spartano quanto gli Stripes, influenzato fortemente anche dalla scena No Wave di New York. Al termine del tour, i due, assieme a Jack Lawrence, bassista dei Raconteurs, passano per Nashville, e provano a fare musica assieme nel nuovissimo studio di registrazione (ovviamente un 8 piste analogico) di White. Il padrone di casa si accomoda alla batteria e propone un paio di cover, tanto per scaldarsi: Are Friends Electric? dei Tubeway Army di Gary Numan e New Pony, uno dei brani più ottusi di Bob Dylan, ripescato dal controverso album Street Legal. I neonati Dead Weather trovano immediatamente il loro suono: fangoso, sporco e paranoico, pronto a trasformare ogni blues in ossessione. Con l’aggiunta di Dean Fertita, già tastierista e chitarrista con Brendan Benson e i Queens Of The Stone Age, realizzano il loro primo album, Horehound, uscito per l’etichetta Third Man Records dello stesso White. Su disco riescono a conservare la stessa spontaneità.

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Video - The Dead Weather - Treat Me Like Your Mother


giovedì 27 agosto 2009

I grandi album Gibson – Oasis – Definitely Maybe

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“Nella mia mente i miei sogni sono reali. Vuoi sapere come mi sento? Stasera sono una rock’n’roll star!”

(Oasis, Rock’n’Roll Star)

Per gli Oasis non c’è differenza tra vivere e sognare. È il 1994 e incidono per la Creation di Alan McGee il proprio album di debutto, convinti di stare per diventare il più grande gruppo rock del mondo. Si muovono nel music business con una sicurezza arrogante, sfacciata, che rendono palese in ogni loro posa e intervista, e soprattutto nella loro musica. Hanno un’occasione unica, lo sanno bene – se si fallisce ci si sveglia dal sogno, e il risveglio è duro – eppure per trovare qualche traccia di paura e di dubbio nelle canzoni di Definitely Maybe bisogna fare un grosso sforzo, come per decifrare il tremolio del piccoletto che s’atteggia a bullo e fa la voce grossa. Già la copertina è uno sfrontato sedersi al tavolo dei grandi. Come se sapessero di stare realizzando un classico, la disseminano di indizi, citazioni, enigmi. Ecco Burt Bacharach, George Best, Il buono il brutto e il cattivo, il mondo che gira svelto (un mappamondo gonfiabile era stato simbolicamente esibito da Ian Brown degli Stone Roses allo storico concerto di Spike Island nel ’90). Compaiono, non a caso, due chitarre Epiphone: una EJ 200 acustica tra le braccia di Noel Gallagher e, in fondo alla stanza, una Riviera. Alla scena manca uno strumento fondamentale, la Gibson Les Paul Standard del 1960 regalata da Johnny Marr degli Smiths a Noel durante l’incisione dell’album. Il leader degli Oasis ama raccontare come, ispirato dal significato e dalle qualità di quella chitarra, appena la tirò fuori dalla custodia, compose Slide Away: “è come se la canzone si fosse scritta da sola. Marr si meriterebbe la sua parte di royalties!”

Il dono di Marr può essere visto come un passaggio di consegne. Di certo molte cose dividono gli Smiths dai concittadini Oasis. Difficile ad esempio immaginare Liam Gallagher, simbolo della Lad Culture, sedersi a tavola con il sofisticato intellettuale Morrissey: non riuscirebbero nemmeno ad accordarsi sul tipo di ristorante. Ma tra i due gruppi ci sono anche diversi punti in comune. La chiave è, per l’appunto, nella chitarra. Come gli Smiths hanno rappresentato nel 1983 la reazione al new pop sintetico e spesso fieramente superficiale, così nel 1994 gli Oasis – e con loro l’intera armata di restauratori del Brit Pop – rispondono al trip hop e alla cultura dei rave. La stessa chitarra – lo stesso concetto di “musica con le chitarre” – è chiamata a fare resistenza prima contro i sintetizzatori e le batterie elettroniche, e poi contro i campionatori e i turntables. Riecheggia il disprezzo di Morrissey verso il reggae e la dance, nella rigorosa scelta dei punti dei riferimento degli Oasis. Beatles, ovviamente – ché non si può prescindere dal canone – Beatles da rileggere con la furia dei Sex Pistols, nella nebbia di chitarre e elettricità di casa alla Creation (Definitely Maybe è un disco più rumoroso di quanto possiate ricordare!) A proposito di Creation, è facile risentire i sabotaggi melodici dei Jesus And Mary Chain nell’insistito uso del feedback. Dei libri dei padrini Paul Weller e Stone Roses vengono lette solo le pagine “bianche”: sì a That’s Entertainment e a She Bangs The Drum, no a Walls Come Tumbling Down e Fool’s Gold. C’è grande spazio anche per l’epica dei Who e per il boogie glam di Mott The Hoople e Marc Bolan: Cigarettes And Alcohol è costruita sul riff di Get It On dei T.Rex. Obiezione del bassista Paul “Bonehead” Arthurs: “Non puoi farlo! Sono i fottuti T.Rex!” Risposta di Noel: “Non me ne frega niente, adesso sono i fottuti Oasis!”

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Video - Oasis - Supersonic



martedì 11 agosto 2009

I grandi album Gibson – Chuck Berry – St. Louis To Liverpool










“Chuck Berry è uno dei grandi poeti di ogni tempo, si potrebbe definirlo un poeta rock”

(John Lennon, in un’intervista a Jann S.Wenner)

Iniziamo il nostro viaggio tra i “grandi album Gibson” della storia del rock con St. Louis To Liverpool, pubblicato da Chuck Berry nel 1964. Sulla sua copertina troviamo Mr. Rock And Roll in grandissima forma, con la sua amata Gibson ES-350 T tra le braccia (in seguito la sostituirà con una Gibson ES-355), mentre spicca un energico balzo che gli consente il metaforico viaggio del titolo, dalla sua citta natale nel Missouri fino alle rive del Mersey. Che ci va a fare uno così a Liverpool? La missione è “riportare tutto a casa,” per citare l’espressione scelta nello stesso anno da Dylan come titolo del proprio esordio elettrico (debutto notevolmente influenzato dallo stile di Chuck). Gli USA stanno vivendo i giorni della Beatlemania e della British Invasion: i giovani gruppi inglesi hanno trovato il modo di vendere un’irresistibile qualità di ghiaccioli agli eschimesi, piazzando una partita di rock and roll di prima qualità proprio nella patria dove il rock è nato. Dopo gli anni della restaurazione, dei Paul Anka, dei Pat Boone e dei troppi Bobby, ai teenager americani non pare vero di...

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Video Chuck Berry - No Particular Place To Go

mercoledì 5 agosto 2009

Tutta la musica della vecchia America – Electric Dirt, il nuovo album di Levon Helm

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Levon Helm: “Dalle mie parti stiamo proprio in mezzo al Paese. Perciò quando il bluegrass, o il country, arrivano in quelle zone, si mischiano con il ritmo, e se si balla…”

Martin Scorsese: “…sì?”

Levon Helm: “Allora hai una combinazione di questi diversi generi musicali: country, bluegrass, blues.”

Robbie Robertson: “Il melting pot.”

Martin Scorsese: “E come si chiama?”

Levon Helm (sorridendo): “Rock and roll.”

(Da L’ultimo valzer, 1978)

Pete è in viaggio verso il Messico, inseguito dalla legge. Ha rapito Mike, un agente della polizia di frontiera, assassino impunito di Melquiades Estrada. Pete ha deciso che Mike deve seppellire Estrada nel suo paese natale, perché giustizia sia fatta. Lungo il tragitto sostano brevemente da un vecchio cieco, che vive da solo in mezzo al nulla, con l’unica compagnia della radio. L’uomo li accoglie con gentilezza. Prima di lasciarli andare, chiede che lo uccidano.

Il vecchio è Levon Helm, uno dei nomi fondamentali della storia del rock, voce (assieme a Richard Manuel e Rick Danko) e batterista di The Band. Il film è Le tre sepolture (2005), diretto da Tommy Lee Jones, un film che se fosse stato una canzone sarebbe stato una canzone di The Band.

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Video - Levon Helm - Tennessee Jad


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