martedì 17 novembre 2009

Sto provando a spezzarti il cuore – I trionfali concerti italiani dei Wilco

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– Qual è, secondo te, lo strumento più cool del mondo?
– Ce l'ho, è una chitarra Gibson Barney Kessel. Ha un doppio cutaway che ricorda le corna di un diavolo, ed è un'enorme hollow-body degli anni '60. Me l'ha regalata mia moglie per Natale.
(Jeff Tweedy dei Wilco, in un'intervista del 2003 a Rolling Stone)

Al concerto dei Wilco al Teatro la Pergola di Firenze, Tweedy tira fuori la sua amata Gibson Barney Kessel solo per uno degli ultimi brani dell'esaltante serie di bis finali, Walken, trottante estratto da Sky Blue Sky (2007). Prima s'affida a una Gibson ben più nota, la SG, che alterna in tre versioni differenti, tra le quali una splendida SG Special Faded di color Heritage Cherry. Con le sue SG, Tweedy non si risparmia negli assoli, e la sua capacità di essere assieme cantautore, frontman e guitar hero (questo è vero rock, non siamo in un videogioco) rende naturale immaginarlo come il principale erede di Neil Young. Certo, ci vuole coraggio, se non faccia tosta, a lasciarsi andare con la sei corde, quando al proprio fianco si ha un gigante come Nels Cline. Ma è necessario che Tweedy lo faccia: si dimostra perfetto nel ruolo di leader proprio nel saper passare dalla tensione dell'intimità alla liberazione delle lunghe tirate elettriche. Ha un controllo eccezionale del pubblico, in suo ogni gesto c'è la capacità di trasformare le proprie emozioni in sensazioni comuni. Potrebbe usare la musica come i fili di un burattinaio, ma rifiuta ogni manipolazione. Sembra invece che sia lui stesso ad andare a scavare nella verità di chi gli sta davanti, facendo in modo che i pochi fortunati che hanno trovato un posto possano essere, semplicemente sentendo la musica, coprotagonisti delle due ore e mezza di show...

[Clicca qui per continuare a leggere l'articolo di Paolo Bassotti su Gibson.com]

Wilco - Walken

lunedì 9 novembre 2009

Direzioni diverse – Intervista al Teatro degli Orrori (Prima parte)

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A sangue freddo
, il secondo album del Teatro degli Orrori, è un disco forte. È un perentorio, quasi temerario, atto di fiducia nei confronti della potenza di musica e parole. D'un tratto, quasi tutto il resto del rock italiano (e non solo) sembra timido, condannato a confrontarsi con futili questioni quali generi e mode. Il Teatro degli Orrori arriva, ti si piazza a un centimetro dal naso, e ti dice quello che ha da dire, con sicurezza sfacciata, anche quando affronta il dubbio. Si inizia – ed è uno shock – con Io t'aspetto, dalle parti di Tenco e Piero Ciampi (o dei La Crus, per andare a un'altra generazione). Ci si attende un rumore familiare, si viene invece accolti dal suo contrario. È un gesto che serve a mettere le cose in chiaro: qui comandano gli artisti, sono loro che dettano i tempi, i temi, e si prendono pure il gusto di far sudare all'ascoltatore l'arrivo del rock. Quando, dopo quattro minuti d'attesa, con Due arrivano il primo riff e il primo colpo di batteria, è come se si spalancasse una finestra aperta sul chiasso crudele di un mondo alle prese col Giudizio Universale. Il Teatro degli Orrori traccia la mappa di tale terra desolata, ritornando con ostinazione sulle macerie di un amore, come se l'impossibilità della felicità di coppia fosse la metafora necessaria del Trionfo della Fine (persino la strafottente Mai dire mai finisce inghiottita da vecchie fotografie e da un dolente “tesoro ripensaci”). Pierpaolo Capovilla è uno spettacolo nello spettacolo. Mille voci, infinite invenzioni, per trascinare l'ascoltatore da un capo all'altro di un discorso spezzato e allo stesso tempo coerente. S'inabissa nella tenebra del lutto, urla di collera; ora fa scherzi spaventosi, con la voce da cattivo di cartoon, ora si indigna, e gli si crede sempre. Cita di tutto: film, preghiere, musica leggera (si potrebbe fare un lungo elenco che va da Nanni Moretti a Celentano). Li elabora in una poetica profondamente personale, fondata proprio sui repentini cambi di registro, sulle continue evocazioni di contesti e immagini, così come sull'infinito ribadire la propria ossessione per la verità. Più attore che cantante, a volte s'agita con l'aria di un ipnotico e bizzarro capopopolo su di una scaletta ad Hyde Park (“Che cosa ha in testa certa gente?” si chiede sfinito al termine di Alt); a volte, invece, è improvvisamente umano, vulnerabile, e ci si convince che non possa rappresentare altro che sé stesso...
[Clicca qui per leggere la prima parte dell'intervista di Paolo Bassotti a Giulio Favero del Teatro degli Orrori su Gibson.com]

Video - Il Teatro degli Orrori - A Sangue Freddo

lunedì 2 novembre 2009

I grandi album Gibson – ZZ Top – Degüello

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“Una parte fondamentale del trio è sempre stato lo stile “al contrario” della band... con una chitarra molto bassa e il basso in un ruolo quasi da leader, tenuti insieme da una batteria che sembra un serpente a sonagli. Il vero elemento magico è stata Pearly Gates, la Gibson Sunburst Les Paul Standard del 1959. Acquistai questa chitarra – che era stata rinvenuta sotto a un letto – senza immaginare quanto fosse in grado di suonare pericolosa. Era stata fatta in uno di quei giorni magici, nei quali tutto è perfetto: la colla, il legno, i componenti elettronici. Devo ancora trovare uno strumento in grado di eguagliare la sua potenza brutale.”

Da questo breve estratto dalla sua autobiografia, Rock + Roll Gearhead, è facile capire quanto Billy Gibbons degli ZZ Top ami la sua Pearly Gates. Quando la “tradì” con una chitarra della concorrenza, per registrare uno strumentale incluso in Rio Grande Mud (1972), si sentì addirittura in dovere di scusarsi con lei, e intitolò il brano Apologies To Pearly!

Anche per Degüello (1979), album chiave della discografia degli ZZ Top, Gibbons utilizzò in quasi tutti i brani Pearly Gates (abbinata a una pedaliera assemblata agli Haley Labs di Austin e agli amplificatori a valvole Jake Stack's Rio Grande); l'unica eccezione fu Cheap Sunglasses, per la quale adoperò la chitarra rosa donatagli da Jimi Hendrix. Degüello arrivò in un momento particolare della storia del trio di Houston...

[Clicca qui per continuare a leggere l'articolo di Paolo Bassotti su Gibson.com]


ZZ Top - Cheap Sunglasses


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