martedì 28 ottobre 2008

James Jackson Toth - Waiting In Vain

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Per i suoi primi lavori pubblicati sotto il nome Wooden Wand, James Jackson Toth era stato paragonato a maestri dell’anomalia come Can, Grateful Dead e Animal Collective. Il suo esordio a proprio nome prosegue invece il processo di normalizzazione iniziato lo scorso anno con l’album James And The Quiet.
Waiting In Vain è un disco di Americana con pochi guizzi, realizzato con una diligenza e un eclettismo che fanno pensare alla competenza di Ryan Adams. Ad accompagnare Toth in questa avventura solista c’è un team di musicisti provenienti da band come Wilco e Vetiver, capitanati dal bassista della Giant Sunflower Band, Shayde Sartin (“Se io sono Beefheart, lui è Zappa”, ammette Toth). La voce di Jexie Lynn, moglie dell’ex Wooden Wand, è una presenza costante, col compito di addolcire testi pieni di riflessioni su vizio, pentimento e dannazione. Sorprende sentire come la voce di Toth sia capace di evocare un Mick Jagger più inquieto e meno sensuale (in The Banquet Styx sembra di vederlo imprigionato nel Memory Motel), ma purtroppo la maggior parte dei brani non riescono proprio a decollare. Nessuna caduta, ovunque prevalgono grande gusto e cura meticolosa degli arrangiamenti, ma c’è davvero poco da applaudire, se non la coraggiosa scelta di fare a meno del minimalismo e dell’intimismo che spesso rendono indigeribili album del genere. Uno dei brani più aggressivi, Beulah The Good, è il pezzo forte dell’album, un omaggio al Dylan frenetico di Tombstone Blues, sulla linea della recente To The Dogs Or Whoever di Josh Ritter. Anche la solenne chiusura di The Dome, lascia il segno, e fa pensare che se Toth limitasse la sua prolificità a vantaggio della qualità potrebbe ritrovarsi con un album irresistibile, per concludere al meglio il suo passaggio dalla sperimentazione al mainstream.

James Jackson Toth - Doreen

giovedì 23 ottobre 2008

Conor Oberst - Conor Oberst

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Non avendo il solito Mike Mogis al suo fianco, Conor Oberst non si è sentito di considerare questo lavoro come un album dei Bright Eyes. Per la prima volta ha invece deciso di usare il proprio nome, occasione buona per provare a cominciare una nuova storia.
Per anni Oberst è stato tanto prolifico da far sembrare Ryan Adams laconico come Scott Walker (mmm, sto esagerando), concedendosi distrazioni e divagazioni. Ora il ragazzo ha ventotto anni, e realizza al momento giusto il disco della maturità artistica. In dieci tracce (più due abbozzi) registrate in Messico con la Mystic Valley Band il padrone di casa tratta con classe e familiarità tutti i generi del cantautorato americano, cambiando scenografie con sicuro eclettismo degno di Neil Young. Sa rannicchiarsi nell’intimità della compagnia di una sola chitarra, a trovare più forza per le sue parole sempre brillanti, forza sufficiente a rendere credibile la solita voce sempre sul filo del pianto. Ma non ha problemi anche con ritmi più sostenuti, con la leggerezza in stile Traveling Wilburys di Sausalito e Get-Well Cards (puro Tom Petty), con le distorsioni indie del finale di Souled Out!!!
Conor Oberst è un album che parla di fughe e di inquietudini. “Non c’è niente che la strada non possa medicare”, ribadisce Oberst in Moab. Si scappa, sempre, perché star fermi è più difficile dopo avere scoperto che la bottiglia non contiene nemmeno una soluzione. Sorprendente è la maturità con la quale, proprio in mezzo all’album, inserisce un coraggioso viaggio nella malattia. In Danny Callahan, commovente fino a essere quasi insostenibile, parla di un bambino che si spegne per un cancro al midollo spinale: “Sua madre gli ha dato un bacio d’addio dicendogli: ‘Torna qui, dove vai da solo?’”. Con un sorprendente ribaltamento di prospettiva passa immediatamente allo scherzoso rockabilly di I Don't Want To Die (In The Hospital), nella quale Oberst vuole fuggire dall’ospedale nel quale “non ti lasciano fumare/o ubriacarti/ti fanno solo guardare le soap opera”. Sono lampi di scintillante talento come questo che fanno capire quanto questo disco debba rappresentare una svolta per il suo autore, una spinta verso l’alto. Da adesso in poi niente più capricci, ora siede a tavola coi grandi.

Questo mio articolo è tratto dal Pdf gratuito con le recensioni di SentireAscoltare di Settembre.

Video Conor Oberst - Souled Out!!!

lunedì 20 ottobre 2008

The Lexie Mountain Boys - The Lexie Mountain Boys' Sacred Vacation

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In genere non scrivo stroncature. E' divertente, ma è troppo facile. Ieri sera da Fazio c'era Baricco che massacrava l'Ulisse di Joyce, tanto per darvi un'idea. Ma visto che qualche tempo fa m'è capitato questo disco nella cassetta delle lettere, per una volta non ho potuto dire di no.


Nelle loro performance, le cinque ragazze di Baltimora che compongono le Lexie Mountain Boys si presentano con delle barbe finte e delle scritte sul corpo, dedicandosi a atti insensati quali sfilare in processione con le sedie sulla testa, erigere piramidi umane o dipingere arcobaleni coi capelli. Evidentemente continua a esistere un pubblico entusiasticamente pagante per questo tipo di provocazione all’ingrosso, che personalmente trovo più noioso della fila alla posta. Lexie Macchi e le altre hanno ora deciso di realizzare un intero album che possa rappresentare l’aspetto sonoro delle loro esibizioni. Sacred Vacation è fatto di quaranta interminabili minuti, nei quali le Lexie improvvisano, rigorosamente senza nessuno strumento di accompagnamento, una serie di urla, versi d’animali, vocine e vocioni, battendo le mani e i piedi in libertà. Al meglio – se un meglio esiste in un tale disastro – pare di ascoltare delle bambine ubriache che giocano a saltare la corda. Su Internet c’è chi parla di avanguardia, di Dada, di musica ispirata e eccitante. Il rumore delle Lexie non è niente di tutto ciò, è solo una presa in giro saccente e arrogante. Non si tratta nemmeno di gridare che il re è nudo, stavolta a stare con le chiappe al vento è il buffone di corte, nessuno dovrebbe imbarazzarsi nel farlo notare. Qualcuno le accosta agli Animal Collective. Il paragone è possibile se pensiamo alle finalità (stupire e stordire creando un mondo infantile e ossessivo), ma è assolutamente improponibile se ci riferiamo a tutto il resto. Qualche anno fa presi parte a un concerto del gruppo di Avey Tare e Panda Bear: fu stupefacente, un’ora di rumore prepotente e ispirato capace di dare vita un universo di suoni allo stesso tempo accogliente e soffocante. Gli Animal Collective sono degli artisti di talento. Le Lexie musicalmente non sono niente, e il loro album, insultante, insopportabile, non vale proprio niente. (0,3/10)

Questo mio articolo è tratto dal Pdf gratuito con le recensioni di SentireAscoltare di Settembre.

Video The Lexie Mountain Boys - Live At The UTR

mercoledì 15 ottobre 2008

Okkervil River - The Stand Ins

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A un anno di distanza da The Stage Names arriva la seconda parte di un progetto originariamente pensato come un doppio album.
Al centro delle riflessioni di Will Shelf pare imporsi definitivamente un tema che da sempre gli è caro: i retroscena e i paradossi dello show businnes e della musica leggera.
La sua abilità con i testi è come al solito straordinaria. “Cantate con dolcezza e dichiarate in fretta, le parole che lui ha calcolato per farti cantare in coro (con lo stereo acceso, mentre sei in calzoncini sul prato) vengono completamente fatte proprie da una coppia che ha appena consumato il primo amore all’alba”. È l’ipotesi di Pop Lie: se il cantante mente, chi si innamorerà della canzone e la canterà con lui, sarà altrettanto bugiardo? A chi si può credere? In Singer Songwriter c’è un fiume di veleno, degno del Dylan più spietato, destinato a chissà quale ipocrita cantautore di buona famiglia e dai consumi impeccabili (Kinks, Poe e Chanel): “Tu hai buon gusto. Che spreco che tu non abbia nient’altro”.

Con questo disco gli Okkervil River salutano Jonathan Meiburg, che lascia la band per dedicarsi a tempo pieno agli Shearwater. Echi dell’evento risuonano nel brano d’apertura, Lost Coastlines, un duetto tra il leader e l’amico partente, un pezzo sulle difficoltà e il senso di smarrimento della vita in tour.

Starry Stairs è, insieme alla copertina, il collegamento più palese con l’album precedente, in quanto come Savannah Smiles parla di Shannon Wisley, la pornostar morta suicida dopo essere rimasta sfigurata (“Hanno chiesto il sangue. Di cosa pensino sia fatta questa donna?”).

In chiusura di The Stand Ins incontriamo un’altra stella caduta, l’aspirante divo del glam Jobriath, immortalato in un momento di assurda speranza prima dell’inevitabile fine, in Bruce Wayne Cambell Interviewed On The Roof Of The Chelsea Hotel, 1979.

L’ossessione di Shelf con la cultura pop è benvenuta in quanto gli dà la chiave per esplorare al meglio i sentimenti e le debolezze umane. Persino un brano intitolato Calling And Not Calling My Ex è dominato dalla presenza dei media: “In Tv sembri uguale a quando eri mia […] Falli voltare a guardarti, mandali al tappeto, spezza i loro cuori”.

A livello di testi c’è dunque abbastanza per fare di The Stand Ins uno dei dischi dell’anno, ma, musicalmente, dietro agli arrangiamenti sempre perfetti, troviamo purtroppo segni di stanchezza, soluzioni ripetitive, come se talvolta le canzoni cedessero sotto il peso delle parole. Occorrono davvero molti ascolti per riuscire a farsi entrare i brani sotto la pelle, ed è difficile apprezzare pienamente l’album senza tenere sempre il booklet sottomano. Ma la sicurezza con la quale si muovono gli Okkervil River lascia pensare che per il prossimo futuro hanno già pronti nuovi scenari per le proprie canzoni tanto ambiziose quanto generose. (7,4/10)


Questo mio articolo è tratto dal Pdf gratuito con le recensioni di SentireAscoltare di Settembre.


Mp3 - Okkervil River - Lost Coastlines

Video Okkervil River - Lost Coastlines

martedì 14 ottobre 2008

Dr. Dog - Fate

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Forse per il modo in cui Toby Leaman sa arrochire la voce ripetendo un trucco da maestro di Paul McCartney (ascoltate Hang On), o forse per la presenza di brani capaci di conservare un’anima pop malgrado una struttura complessa, il nuovo album dei Dr. Dog fa spesso venire in mente la musica dei Wings: Macca senza l’ambizione e il peso di essere uno dei Beatles, ma con la voglia di stupire con pezzi come Let ‘Em In. Naturalmente il gruppo di Filadelfia mostra numerose altre influenze, su tutte quelle della Band – palese in 100 Years - e dei Byrds, nelle armonie vocali e nella capacità di andare a pescare in ogni angolo della tradizione americana. Il risultato di tanti padri illustri è un solido album (il quinto, senza contare un paio di EP), fatto di musica leggera a la Crowded House, con allegata licenza di incupirsi. I Dr. Dog si giocano le loro carte migliori per realizzare una sorta di ambizioso concept sul destino e sul modo di affrontarlo. Alcune canzoni sono, per stessa ammissione della band, antitetiche: lo stesso personaggio che in Army Of Ancient assume un ruolo totalmente passivo di fronte alla sfortuna, in The Ark si dà da fare per cercare una soluzione, riuscendo a trovare un senso al proprio fallimento. È identico anche il destinatario di un attacco come The Rabbit, The Rat And The Reindeer e di una canzone d’amore come From. Per tutto il disco si ha la sensazione che il gruppo stia attraversando un periodo particolarmente felice in termini di creatività; peccato che, malgrado la scrittura sempre buona, manchino canzoni di grande impatto, capaci di rendere il disco indispensabile. The Old Days, deliziosa per l’intreccio di banjo e chitarre, ci si avvicina, ma fa riflettere il fatto che nell’album non ci sia niente così efficace come la recente cover che i Dr. Dog hanno fatto di Heart It Races degli Architecture In Helsinki. (6,9/10)

Questo mio articolo è tratto dal Pdf gratuito con le recensioni di SentireAscoltare di Settembre.


Mp3 Dr. Dog - Worst Trip

Video Dr. Dog - The Ark

mercoledì 8 ottobre 2008

Intervista a David Vandervelde - Il nuovo numero di SentireAscoltare

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Il Pdf del numero 48 di SentireAscoltare è disponibile gratis per tutti. A pagina 16 (pagina 9 del file) trovate un mio pezzo su David Vandervelde, con tanto di intervista al giovane e nostalgico tuttofare di Chicago. Eccolo qui:

David Vandervelde: una musica in testa, aspettando l'alba

di Paolo Bassotti

Qualche anno fa andava di moda parlare di guilty pleasures. L’artista di turno, spesso sollecitato da un intervistatore malizioso, faceva coming out. Ammetteva, nella propria immacolata collezione di dischi, accanto ai bootleg degli Stooges e ai vinili dei Kraftwerk, la presenza di album tanto godibili e irrinunciabili quanto imbarazzanti e fuori moda. I nomi più ricorrenti del mondo dei piaceri proibiti erano le stelle del MOR, del rock per adulti degli anni settanta. Oggi s’è finalmente capito che non c’è nulla da vergognarsi ad amare Hall & Oates e i Wings, e che, seppure certi dischi erano la negazione dello spirito giovane e selvaggio del rock, offrivano esempi splendidi di altri aspetti fondamentali della musica leggera: la scrittura e la produzione della forma canzone. Quale sfizio potrebbe al giorno d’oggi sembrar peccaminoso? Stephin Merritt dei Magnetic Fields si fa da tempo paladino degli Abba quanto dei Jesus And Mary Chain, Dennis Wilson viene finalmente ristampato a dovere, e gli svedesi di etichette come la Labrador dispensano delicatezze con la sicura grazia di chi pare avere reinventato il sole (seppure in una versione un po’ sbiadita).

Una delle belle sorprese della prima parte del 2008 è stato Here’s To Being Here l’album di Jason Collett, nel quale abbiamo trovato un ex membro dei Broken Social Scene, splendidi sabotatori delle forme canoniche, alle prese col revival del lato morbido della West Coast.

Ancor più sorprendente è stato vederlo superato nell’impresa da David Vandervelde, giovane musicista di Chicago, che torna con un lavoro che pare voler gridare al mondo: “Ammettetelo! Quando ascoltate Deja Vu, è per Teach Your Children e Our House più che per Carry On e Almost Cut My Hair!”

Ci si stupisce di questo nuovo Vandervelde perché col suo esordio, The Moonstation House Band, del 2007, sembrava inserirsi nel filone del nuovo glam, accanto a Bobby Cohn, White Williams e ai nuovi Of Montreal. Lo faceva sfoderando perfette riproduzioni del sound dei T Rex, impressionanti soprattutto nella riproposta di certi vezzi vocali. Chi l’avrebbe mai detto che Vandervelde portava nel cuore più Tony Visconti che Marc Bolan? In Waiting For The Sunrise, appena uscito, ha affinato la sua abilità in cabina di regia, e l’ha messa al servizio di suoni molto più americani, caldi e maturi. Nella breve intervista che ci ha concesso ha confermato i nostri sospetti sulle sue influenze come produttore:

Sono un grande fan di Lindsey Buckingham e sono stato influenzato dal suo lavoro con e senza i Fleetwood Mac. Sono anche un grande appassionato di Jeff Lynne (Mente degli ELO e produttore per George Harrison e Tom Petty, N.d.G.).

Continuando il discorso, sbuca fuori a un certo punto anche un nome più sorprendente:

La produzione è divertente. Vorrei continuare a produrre i miei dischi. Mi piacerebbe anche fare un disco di R&B con R. Kelly, eliminando tutta quella merda computerizzata e l’auto tune… fargli fare un disco vero con buoni musicisti. Io sono un suo fan, lui è un re dell’R&B, ma la produzione nell’R&B continua a peggiorare. Non è più vera.

Nessun guilty pleasure neanche in questo caso, Kelly è un nome ormai stabile nel Pantheon dell’Indie. Will Oldham/Bonnie Prince Billy ha appena registrato una cover di The World Greatest – grande canzone, seppur sovraccarica di pathos – e anche Beck da anni si professa fan del controverso divo dell’R’n’B, spesso geniale, spesso ridicolo (capace di essere entrambe le cose nel sublime e assurdo melodramma di Trapped In The Closet).

L’intervista era partita dai Lickedy Splitz, il gruppo che l’accompagna dal vivo e che l’ha aiutato nella realizzazione di questo nuovo disco:

Le canzoni che stavo scrivendo per il disco hanno preso vita in una nuova forma mentre le registravo in studio con la band. C’è una sorta di sensazione magica e inspiegabile che avverto quando una o più persone imparano le mie canzoni e le suoniamo insieme.[…]Il primo disco è pieno di variazioni di frequenza del nastro analogico, voci raddoppiate e tutti gli altri trucchi… ed è stato fatto cinque anni fa. Waiting For The Sunrise è di sicuro molto più diretto, e di certo io sono cambiato molto in cinque anni.

La diversa gestazione di Waiting For The Sunrise ha cambiato anche il suo modo di esibirsi:

Visto che queste canzoni nuove hanno su disco un’impostazione molto live, dal vivo sembrano spesso abbastanza simili. Comunque cerchiamo di lasciare che in concerto le canzoni divengano come vogliono, senza impazzire cercando di farle uguali alla loro versione in studio. Dal vivo è sempre tutto più rumoroso.


Mp3 David Vandervelde - I Will Be Fine

Link SentireAscoltare - Numero 48

Video David Vandervelde - Jacket

Tutto è disegnato e super anni '80

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Il video di Take On Me degli A-Ha è uno dei più celebri degli anni '80, condiviso dalla memoria collettiva al punto di essere oggetto di due gustose parodie.
In molti conosceranno quella de I Griffin/Family Guy, con Chris che viene risucchiato nel mondo in bianco e nero al posto della riccioluta ragazza della clip originale.
Merita d'esser vista anche la versione della dustfilms.com, che presenta la traccia vocale ricantata da un certo Dustin McLean, in modo di far coincidere il testo con quel che succede sullo schermo: Everything's drawn and super 80's...

Video A-Ha/Dustfilms - Take on Me


Video A-Ha/Chris Griffin - Take On Me
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